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The Walking Dead – Recensione 6×16 (Season Finale)

[SPOILER ALERT]

THE LAST DAY ON EARTH!”

 

Ultimo attesissimo capitolo di questa sesta stagione di The Walking Dead. In parole povere se c’è una cosa che funziona talmente bene in questo episodio da farti rivoltare le viscere è sicuramente la suspense. L’ignoto, e quindi la non conoscenza, mette a dura prova la stabilità del pubblico. E’ una condizione che gli autori sono stati in grado di creare a partire dal primo episodio della seconda parte della stagione, pian piano, con eleganza in alcuni episodi e con ridondanza e dialoghi prolissi in altri. Ma, nonostante questo, forse mai come in questo season finale il tutto è stato architettato con intelligenza, anche se poi…

Ovviamente l’ora di episodio va destrutturata con attenzione perché alcune cose in “Last Day on Earth” hanno faticato a convincere. O almeno c’era da aspettarsi la maggior parte degli eventi della storyline di Carol e Morgan, poco emozionante e di certo altamente prevedibile. C’è però della coerenza, una determinata costanza logica nelle azioni di questi due personaggi che da parecchi episodi, forse fin troppi, avevamo predetto accadesse. Si sono rincorsi dall’inizio e fondamentalmente hanno giocato a nascondino anche stavolta, continuando a ripetersi e a ripeterci il loro credo. Carol si allontana dalle persone a cui tiene per paura di dover uccidere nel rispetto dei suoi cari, mentre Morgan tenta di farla riflettere facendole capire che l’unica cosa che conta in un mondo come questo è lo stare in mezzo alle persone, e quindi viverle. È proprio per questo motivo che finalmente quest’ultimo ritornerà a premere il grilletto, per salvarla dal salvatore sopravvissuto che dallo scorso episodio l’ha rincorsa. In poche parole abbiamo assistito a due linee di pensiero che hanno trovato modo di amalgamarsi uniformemente in un’unica dimensione attraverso l’uso di due personaggi. La loro storyline si conclude con l’arrivo di due uomini in armature pesanti che offrono loro un aiuto. Si tratta sicuramente della community dei The Kingdom.

 

 

Parallelamente Rick, Eugene, Abraham, Carl, Sasha Aaron si preparano ad affrontare le strade e i rischi. Il loro obiettivo è quello di portare Maggie, dolorante a causa di una ipotetica gravidanza problematica, ad Hilltop, visto che l’unico dottore presente ad Alexandria ha ricevuto il benservito da una freccia. Anche qui il discorso in effetti torna egregiamente, ogni episodio dubbioso visto fino a questo momento sembra aver trovato una sua risposta all’interno del cerchio. Ma i salvatori, anche loro stanchi dei giochetti, portano attraverso l’inganno e la superiorità in termini di numero i nostri eroi a vivere il disagio più totale. Un disagio che percepiamo anche noi ardentemente e che arriva al suo culmine nel momento in cui una catena di erranti li blocca per la terza volta e li costringe ad adottare una nuova idea. Erranti che tra l’altro portavano addosso cimeli di Michonne e Daryl.

 

 

 

Tutto questo terrore incombente continua in maniera imprescindibile ad evolversi, inquadratura dopo inquadratura, attraverso una colonna sonora efficace e martoriante. Colpisce forte nello stomaco, è un trambusto, è un battito cardiaco accelerato e quello che stupisce di più è che questo continuo ronzio di fondo nasce sin dalla prima inquadratura dell’episodio: Enid che bussa alla porta, i salvatori che riempiono di pugni quel povero sopravvissuto. Un ritmo costruito in maniera ineccepibile che trova la sua riuscita più grande nel momento in cui si unisce al fastidioso fischiettio che preannuncia la trappola, il terrore. Sì perché una volta che Rick prende una decisione definitiva, grazie a un’idea apparentemente brillante di Eugene, decide di scendere dal camper e di portare Maggie a piedi verso Hilltop. Ed è lì nel buio pesto dei boschi e nella paura, quella più interessante per lo spettatore che vive lo stesso pericolo, che Rick perde tutto.

 

 

L’arrivo di Negan è liberatorio e atteso, la teatralità con cui viene presentato è straordinaria perché nel momento in cui ci si rende conto che è un uomo in carne e ossa si rimane quasi delusi, come fossimo lì in attesa di conoscere un Dio. Ma non è così, ci provano anche i suoi uomini a introdurlo a Rick e agli altri come il capo che ha la sua entrata plateale, in fondo però è solo un uomo, ben curato, che comunica con la sua mazza chiodata (Lucille) come fosse la sua compagna di vita. Non scende dall’alto, ma da una roulotte sgangherata. Gasati dall’atmosfera lo ascoltiamo e percepiamo tutto un insieme di vibrazioni.

 

Tutte sensazioni che, a nostro parere, non ci provoca lui bensì lo stato d’animo di Rick. Ed è ancora qui che Andrew Lincoln vale più degli altri: il suo senso di smarrimento, la sua difficoltà nell’inginocchiarsi, i suoi occhi lucidi, gonfi e spenti hanno il compito più difficile, un compito che viene superlativamente svolto. Il terrore di aver perso, e di averci sempre creduto. Così capisce per la prima volta da quanto tutto è iniziato cosa significa avere paura di qualcuno senza un barlume di speranza. Fa male a lui e, fortunatamente, questo arriva a noi.

 

 

Ciò però non basta a giustificare la cosa più inammissibile di tutte: l’effettiva presa in giro, ossia l’interruzione di un’azione che abbiamo aspettato da mesi, in altre parole il cliffhanger meno riuscito di sempre. È come se agli autori fosse mancato il coraggio di umanizzare Negan, che invece è lì come un giudice che fa la conta per decidere chi uccidere. E quando lo decide noi non siamo invitati a guardare.

 

 

Abbiamo assistito alla costruzione di un mondo che non abbiamo avuto il diritto neanche di sbirciare da dietro le quinte perché gli ultimi dieci minuti, per quanto intensi, sprizzavano da tutti i pori una certa finzione carica di una teatralità eccessiva che non ci ha regalato nulla se non un monologo pregno di incertezza.

 

Alla prossima recensione ragazzi!

 Gabriele

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