È da un po’ di tempo che non scrivevo una recensione, ma Thunderbolts se la merita. L’anno scorso ho imparato due lezioni fondamentali riguardo ai film: in primo luogo, che è inutile andare al cinema con i pregiudizi e in secondo luogo, che il trailer già ti fa capire se la storia ti piacerà oppure no. Io di pregiudizi non ne avevo, anche se le recensioni che avevo letto erano tutte positive e dall’ultimo trailer avevo già immaginato che questo film non sarebbe stato per tutti.
Thunderbolts: la recensione

Non volevo fare il solito articolo breve con i cinque motivi per cui andare vedere questo film al cinema, perché se siete qui e non su Instagram significa che volete leggere una vera recensione, qualcosa di più corposo e articolato rispetto a un breve post. Se avete due ore di tempo libere, vi consiglio di recarvi al cinema, perché la vecchia Marvel sta tornando e voi, amanti dei film con i supereroi come me, non vorrete stare in ultima fila stavolta.
La scrittura
Ho letto in giro che qui siamo ai livelli di Avengers: Endgame, che poi è il mio film preferito, ma voglio smorzare subito l’entusiasmo: non è così. Non aspettatevi di essere già al picco della meraviglia, perché siamo abituati a colpi di scena come quelli di Avengers: Infinity War e Wandavision, ma sicuramente questo è sullo stesso podio di Agatha All Along.
Cominciamo quindi dalla scrittura. Il film è dinamico, divertente e commovente. Vi dico solo che non mi sono neanche accorta di essere arrivata alla prima metà del film, quando è stata annunciata la pausa sullo schermo. La storia è lenta, perché non succede molto all’inizio, ma il tempo passa velocemente e questa per me è già stata la prima avvisaglia: questa pellicola è stata scritta bene. Da quanto tempo non si vedeva qualcosa del genere? Perlomeno da Deadpool & Wolverine, a mio parere, parlando di film (togliendo Spider-Man: No Way Home per via dei buchi di trama che Thunderbolts* mi sembra non avere).
Ogni personaggio ha il proprio momento per splendere, ma riescono anche ad amalgamarsi bene insieme. Ogni individuo cresce, anche se viene dato spazio maggiore solo ad alcuni di loro, come Yelena e Bucky, probabilmente perché sono già quelli più amati dal pubblico. Il loro gruppo funziona e funziona soprattutto perché è una famiglia disfunzionale, un po’ come quella dei Guardiani della Galassia (e come quella di Supernatural, per chi ama il tropo della found family come me). Tutti quanti si ritrovano costretti a lavorare insieme e questo li porta forzatamente a conoscersi e fidarsi l’uno con l’altro. La concentrazione si sposta dall’io al gruppo, finalmente ed è questo che fa tutta la differenza del mondo: ogni storia porta qualcosa agli altri e le esperienze condivise portano a crescere insieme. L’individuo matura e insieme a lui, il rapporto con i compagni di squadra. Il legame che all’inizio si crea per caso, viene quindi scelto di mantenere da ognuno di loro.
Il collante del gruppo è senza dubbio Yelena, interpretata magistralmente da Florence Pugh, su cui contavamo forse un po’ anche tutti noi spettatori dopo averla vista in azione sia fuori che dentro l’MCU. Non mi dilungherò dunque nel lodarla, perché penso che l’abbiano già fatto in molti e perché vorrei invece trattare di un personaggio più trascurato: Bob (Lewis Pullman). Ammetto di aver sottovalutato anch’io la sua figura: all’inizio pensavo che fosse il semplice cattivo della situazione senza nemmeno un vero piano, ma mi sono dovuta ricredere. Il motivo per cui questo film non è per tutti è che non abbiamo ancora capito l’importanza dell’affrontare ciò che psicologicamente ci sta fa stare male e di come abbiamo bisogno di qualcuno che ci dia la mano durante il percorso. È facile, ormai, provare empatia per il personaggio che ha subito dei forti traumi nel passato, mentre non è altrettanto semplice riuscire a comprendere quanto sia d’aiuto avere qualcuno che ci dice di essere accanto a noi nel superare i problemi. I vuoti, una volta che ci sono, non possono essere buttati giù o riempiti, perché non sono mancanze, bensì parti integranti di noi stessi. Forse la chiave non è combatterli, ma accettarli, assimilarli dentro di noi e attraversarli come si dovrebbe fare con il dolore. Sono il punto di partenza per imparare a essere una versione migliore di noi stessi, come se si potesse ripartire da ciò che abbiamo perso o che non abbiamo mai avuto. “Non si impara dalle vittorie, ma dai momenti in cui si perde”, disse Tom Holland, che è anche Spider-Man nella vita reale, in una vecchia intervista e penso che questo sia la chiave di tutto.
Il colpo di scena finale
I nuovi Avengers di Valentina Allegra de Fontaine, che ora è nelle mani dei Thunderbolts*, sono degli antieroi e questo spiega l’attualità. Il pubblico non vuole più l’eroe senza macchia e senza paura come il Capitan America di Chris Evans, ma gli esseri umani che sbagliano in cui potersi più facilmente rivedere. Oggi si preferisce l’antieroe di Byron o di Omero (Tersite), perché il focus è sulle imperfezioni delle persone, che, sebbene siano presenti in ognuno di noi, non ci impediscono di fare del bene, proprio come i nostri nel film o Loki nella seconda stagione della sua serie. La visione dell’eroe cambia a seconda dei tempi, ma questo non significa che il suo valore muti a seconda delle mode: la valenza dell’eroe è rimane quella di fare del bene e Thunderbolts*, un po’ come hanno già fatto i film dei Guardiani del resto, è solo qui per dimostrarci che tutti possono esserlo.
Alla luce di questa recensione o della vostra visione del film, cosa pensate di Thunderbolts? Fatecelo sapere nei commenti.
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Erica
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